Betty & Maccio Capatonda: è amore

9 Giu

No, non è la solita paparazzata. In occasione della presentazione di “Babbala e il Ragazzo idiota” alla Bibliomediateca  del Museo del Cinema di Torino, Betty ha intervistato i mitici Maccio Capatonda, Herbert Ballerina e Ivo Avido in veste di registi inediti di cinema horror, creatori di una serie trash, cultori di cinema di genere e chi più ne ha più ne metta per giustificare l’egoistico desiderio di scambiare due parole con i geniali “idioti della porta accanto” con cui ognuno di noi vorrebbe trascorrere i propri sabato sera. Si ringraziano Marco Grifo e Maria Riccobene.



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Cinesi strafatti di sciroppo per la tosse: il festival del cinema punk di Berlino.

24 Mag

Tra le infinite declinazioni dell’amore per il cinema di genere della nostra redazione c’è anche un feticismo particolare per quei festival così assurdamente circoscritti e così irresistibilmente stravaganti da non poter non solleticare la nostra curiosità cinefila. A questo proposito siamo orgogliosi di indirizzarvi all’articolo scritto dalla nostra Elisa Cuter (l’abbiamo scoperta noi!) apparso du Berlino Cacio e Pepe Cinema su “Too drunk to watch”, il festival del cinema Punk tenutosi a Berlino (eddove se no?).

Berlino e punk, binomio inossidabile come i DrMartens che avete comprato in seconda media e che ancora sono lì belli lucidi. Ennesima prova ne è il festival dal geniale titolo“Too Drunk to watch” inaugurato l’altroieri alMoviemento, cinema più antico di tutta la Germania, sito a Kreuzkoelln (per la precisione in KottbusserDamm 22), nonché realtà sempre molto attenta al tema delle sottoculture (tra le altre cose è anche la sede dell’annuale Porno film festival).

Un piccolo festival cinematografico (meno di una ventina le pellicole, tra più e meno recenti) proprio dedicato al mondo del punk. Occasione evidentemente perfetta per tastare il polso di una realtà di quelle che maggiormente caratterizzano la Berlino più “tipica”, quella che viene in mente se si pensa alla città chiudendo gli occhi, almeno dai tardi anni ottanta in avanti.

 A giudicare dall’affluenza di pubblico, verrebbe proprio da dire: Punk is not dead! A stipare a ogni proiezione la saletta del Moviemento è un pubblico molto eterogeneo: tanti i veterani – al punto che per quanto mi riguarda la sensazione era di pieno revival dei mie quindici anni, ma i miei vicini di poltroncina avranno avuto l’età dei miei genitori – ma tanti anche gli adolescenti; tante gli outfit regolamentari, dalla cresta al chiodo borchiato, ma anche tanti i semplici cultori del genere musicale, e infine gli immancabili curiosi. Se si ha fortuna e si tende l’orecchio si può magari captare, com’è successo a me, il racconto appassionante di un ventenne palestinese con cresta verde a una coppia di squatter sulla quarantina appena conosciuta su quanto Gerusalemme testimoni l’equivalenza tra i fondamentalismi, da qualsivoglia parte provengano, sia islamica, sia ebraica, sia cristiana, per quanto riguarda l’intolleranza verso lo stile di vita punk. Concludeva poi accennando al tema della difficoltà della costruzione dell’identità, chiudendo con un sentito: «I miei genitori sono musulmani, io mi sento musulmano, ma sono ateo…ist kompliziert!». Al che i due interlocutori hanno ribattuto portando la loro esperienza di attivisti queer sulla portata di ribellione del punk nei confronti delle imposizioni moralistiche cattoliche.

 La sensazione in effetti è quella di una scena molto autocosciente, non nuova a riflessioni sul proprio ruolo (a/anti)sociale, ma soprattutto, e qui per quanto mi riguarda sta la sorpresa, anche molto autoironica: ad aprire la rassegna è stato scelto Filmriss di Felix Gerbrod, parodia del “making of” di un punk attraverso tagli di capelli, tatuaggi e prove di coraggio. Un film molto divertente, sicuramente punk per quanto riguarda la forma fatta di regia amatoriale, digitale sgranatissimo e attori improvvisati, in una sorta di cinéma verité molto scanzonato, ma dal retrogusto amaro. La trama infatti nasconde una riflessione piuttosto critica su quello che dipinge come un mondo stereotipato quanto gli altri, fatto di tanta apparenza e pochi ideali. Bisogna dire che in effetti da questi primi due giorni di proiezioni viene fuori il ritratto di una realtà molto diversificata, tenuta forse insieme soltanto da un codice d’abbigliamento, più che da una filosofia comune. Del resto, non è un caso che il primo gruppo ufficialmente punk siano stati i Sex Pistols, boy band costruita come trovata pubblicitaria per il negozio londinese di Vivienne Westwood e Malcolm McLaren. Non nobili natali, insomma.

 Ma, per fortuna, in molti casi c’è ben altro dietro alle spille da balia. Se una perdita di contenuti da parte del movimento è stata fisiologica in occidente, in altri tempi e in altri luoghi il punk è stato decisamente qualcosa di diverso. In altri tempi, come ad esempio nella Germania divisa dal muro, come dimostra il documentario Ostpunk, too much future di Michael Boelke, sui gruppi punk clandestini della Ddr, o in altri luoghi, come la Pechino di Beijing punk movie, o il Sudafrica, come appare in Punk in Africa, la musica e la filosofia punk hanno rappresentato qualcos’altro. Un qualcosa che può andare dalla generica trasgressione anche un po’ politicamente confusa, ma del resto coerente con lo stesso termine “punk”, che significa “teppista”, e in ogni caso importante forma di resistenza a un regime censorio come quello cinese, fino all’opera di sensibilizzazione portata avanti da alcuni gruppi africani contro la discriminazione razziale come viene fuori dal bel documentario di Keith Jones, che oltre tutto offre una buona panoramica delle diverse fasi della musica punk e le sue varie contaminazioni con lo ska, il rock, l’oi, il jazz, il reggae e tutti gli eventuali possibili crossover.

 In fondo, tra tutte le sfaccettature che il movimento punk ha assunto dalla sua nascita, da quelle più arrabbiate a quelle più gioiose, da quelle più cazzone a quelle più rigorose, rimane un fatto: non si può in nessun modo negare la portata liberatoria, immediata e irresistibile, anche soltanto di guardare su uno schermo quattro rude boys cinesi sulla quarantina ciondolare per la città strafatti di sciroppo per la tosse. Andate anche voi a rifornirvi della vostra dose di wild youthness: il festival continua, tra documentari musicali, fiction e mockumentaries, fino a sabato, qua il programma e qui la pagina facebook dell’evento.

11mm: Festival del cinema solo sul calcio a Berlino

7 Mag

In questi giorni di grande fervore calcistico abbiamo trovato un’occasione per parlare di un genere che Betty non aveva ancora toccato ma che non poteva mancare nel nostro repertorio: il cinema sportivo. A Berlino si tiene ogni anno un festival dedicato al cinema sul calcio,  vi riportiamo il pezzo sull’ultima edizione, uscito anche su La Gazzetta dello Sport, di un reporter d’eccezione, il blogger Andrea D’addio, autore del blog Berlino Cacio e Pepe e della sua versione più cinefila Berlino Cacio e Pepe – Cinema. Gustatevelo!

Nessun tappeto rosso a base di lustrini e look da star, il green carpet (a base sintetica) srotolato da venerdì scorso davanti al cinema Babylon di Berlino è a disposizione solo di calciatori e vecchie glorie del passato e se un bambino fa rotolare un pallone non c’è nessun rischio di rovinare l’atmosfera elegante: qui un palleggio vale più di una composta posa in attesa di un flash. E’ in corso, ed oggi è l’ultima giornata, l’undicesima edizione del Footbal Film Festival, rassegna cinematografica dedicata unicamente a pellicole sul calcio. Documentari, fiction e persino cartoni animati: se è vero che i buoni film calcistici si contano sul palmo di una mano, non si può dire che cineasti di tutto il mondo non si stiano impegnando per cambiare le cose. Di storie vere da raccontare, del resto, ce ne sono tantissime e non è un caso se la maggior parte siano narrate con la formula del documentario: lo spettatore si accorge subito quando lo stop è quello di un attore e non di un giocatore professionista. Meglio la realtà, meglio i vecchi filmati, le voci e i visi di chi quelle partite le ha giocate ed ora, a distanza di tempo, ne racconta i retroscena, ciò che accadeva negli spogliatoi quando ancora questi erano una zona no limits.

E’ proprio da queste premesse che ha vita il film d’apertura della manifestazione, We are the Champions, diario del mitico portiere Sepp Maier (lo stesso di Italia-Germania 4-3), che a distanza di ventidue anni dall’ultimo mondiale vinto dalla Germania di cui era allenatore dei portieri, ha organizzato il materiale video che registrò durante Italia ‘90 per renderlo un unico ed intimo racconto. Fu la vittoria di una Germania che si chiamava ancora Ovest, ma che la caduta del muro nove mesi prima aveva già unito: la responsabilità era grande ed il piacere della vittoria fu, se possibile, ancora più liberatorio.

Tra le cinquanta pellicole selezionate un focus particolare è dedicato alle nazioni ospitanti il prossimo Europeo. Ecco quindi Poldi, Klose und der Schalker Kreisel sul fenomeno dei calciatori polacchi naturalizzati tedeschi, ed ecco The King of Kharkov, storia dell’imprenditore ucraino Oleksandr Yaroslavsky, proprietario del Metalist e protagonista di molti progetti edilizi realizzati appositamente per la rassegna iridata. La semifinale di Coppa dei Campioni del 1986 tra Göteborg e Barcellona è il momento clou del toccante The Last Proletarians of Football (guardatevi il trailer), sul celebre periodo d’oro dellasquadra svedese capace negli anni ‘80 di competere ai più alti livelli del calcio internazionale nonostante i suoi giocatori non professionisti. “Ma eravamo un vero team” spiega Sven-Göran Eriksson, lui che con quella squadra vinse una coppa Uefa nel 1982.La rinascita del Manchester City dal 2002 ai fasti di questi giorni sono raccontati con il bell Blue Moon Rising, mentre la straordinaria carriera dell’americano Jay DeMerit che a 21 anni e con 1800 dollari in tasca attraversò l’Atlantico alla ricerca di un ingaggio riuscendo a passare nel giro di quattro anni dalla nona lega inglese all’esordio in Premier, e da capitano, con il Watford, è al centro di Rise and Shine. C’è anche un po’ d’Italia grazie al corto Il numero 10 di Daniel Mejia, prodotto dalla Scuola Nazionale di Cinema e all’intervista ad Arrigo Sacchi, scelto dal giornalista David Greenfield per il suo Football’s Greatest Managers (accanto a lui: Rinus Michels, Bon Paisley e Mario Zagallo). A distanza di più di vent’anni il suo Milan è ancora ricordato come una delle più grandi squadre di sempre.

La frase del post

Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo
Pier Paolo Pasolini
Andrea D’Addio

Betty Motor Show

11 Mar

Nell’atto di pensare a che cosa scrivere, la mia concentrazione è totalmente rivolta alla trascendentale interpretazione di Alberto Tomba nei panni di Alex l’ariete. Roba da far impallidire il miglior Michael Knight, alias David Hasselhoff in Supercar, serie tv in cui l’attore recitava probabilmente peggio dell’automobile, tanto amata da avere alcune parodie simpsoniane, ad esempio il supermotoscafo Barca Paladina, presente nell’episodio E con Maggie son tre della sesta stagione. Recentemente ho notato un particolare, quando ho avuto il piacere di rivedere i vecchi episodi di Supercar. Tra i tanti impossibili optional del nostro amico KITT (Knight Industries Two Thousand) mancano forse i dispositivi più essenziali: le cinture di sicurezza.

Nell’universo dell’intrattenimento le auto sono state spesso vere protagoniste. Un santone del calibro di Clint Eastwood, in La recluta preferiva alle curve dell’affascinante Sônia Braga quelle della magnifica Mercedes 300 SL del ’56. Senza stilare inutili e infinite liste, dalla Ford T di Stanlio e Ollio alle ultime trovate robotiche provenienti dal pianeta Cybertron, l’auto ha incarnato, erede della locomotiva dei vecchi western, il mito del superamento dei limiti territoriali e idealmente di quelli del genere umano. In questo senso, unisce la velocità e la possibilità di percorrere grandi distanze del treno con la proprietà privata del cavallo. L’auto è davvero alla portata di chiunque, abbattendo barriere razziali, sessuali e anagrafiche. Dopotutto, ognuno ha una quattro ruote preferita, che vada avanti e indietro nello spazio-tempo oppure che insegua criminali nella Milano violenta, che venga pilotata o che goda di vita propria. Non c’è protagonista o antagonista che non si sia messo al volante di qualche bolide, indossato meglio di maschera e calzamaglia. A conti fatti, nel mondo dell’entertainment, non solo nel cinema di serie B, le automobili hanno rappresentato una parte molto importante della spettacolarizzazione delle scene. Il perché può essere ritrovato nell’economicità del loro utilizzo.

Alcuni ne hanno fatto una vera passione. Impossibile non citare Steve McQueen, che nei suoi film, quando il copione prevedeva scene d’azione con l’uso diretto di veicoli, pretendeva di recitare senza l’aiuto di stuntmen professionisti, causando spaventi agli addetti ai lavori. Ne La grande fuga si divertiva a scorrazzare in sella ad una Triumph, inseguito dalle truppe naziste. La pellicola del 1971 La 24 ore di Le Mans fu fortemente voluto da McQueen proprio per il suo grande amore per i motori, l’indimenticabile attore partecipò anche a diverse competizioni motoristiche.

Fa forse più cool cavalcare una selvaggia motocicletta, simbolo di libertà e contestazione in Easy Rider e che nonostante la passività alle intemperie riscuote il suo notevole successo. Anche il sottoscritto si serve da circa una dozzina d’anni dello stesso amato cinquantino, Ronzinante fedele al quale è difficile rinunciare. Sul piccolo schermo si sono visti i CHiPs, acronimo di California Highway Patrols, dell’indimenticabile Erik “Poncherello” Estrada e di quell’altro del quale quasi nessuno ricorda mai il nome, in onda negli Stati Uniti dal 1977 al 1983 sulla NBC. Nella mia ingenuità di bambino li consideravo un po’ sfigati, perché non potevano caricare a bordo delle loro Kawasaki gli arrestati, problema risolto qualche anno più tardi in Renegade da Lorenzo Lamas, che gli arrestati invece li ammanettava direttamente al suo chopper. Per un breve periodo, precisamente per una sola stagione della durata di 13 episodi, venne trasmesso Street Hawk – Il falco della strada, serie fanta-action datata 1985. Il connubio ai principi del piacere di guida di automobile e motocicletta può essere stare al volante di una fiammante spider, come accade a Bruno Cortona/Vittorio Gassman e Enzo/Carlo Verdone, rispettivamente alla guida di una Lancia Aurelia B24 ne Il sorpasso e di una Fiat Dino in Un sacco bello.

I più pesanti camion si sono trovati spesso in situazioni di amore e odio nei confronti delle più piccole sorelle a quattro ruote, sempre citando Supercar, è difficile dimenticare l’autotreno che fungeva da base mobile per KITT, Michael e Co. Steven Spielberg, invece, ne ha dato un esempio opposto nel 1971, dirigendo il road thriller Duel , in cui il vero antagonista era la possente autocisterna. Ben altra sorte capitata in tv negli anni ’80 ne I giustizieri della strada ai potenti automezzi, comprimari di prima linea dei protagonisti e che andavano anche oltre i confini stradali. Uno di questi, infatti, si trasformava in un elicottero, lo stesso modello, un Aerospatiale Gazelle opportunamente modificato, utilizzato nel 1983 in Tuono blu, per la regia di John Badham e interpretato da una vecchia conoscenza del già citato Spielberg, quel Roy Scheider che altri non era che lo sceriffo Martin Brody, in carica nell’isola di Amity martoriata dai famelici attacchi de Lo squalo. Anche il piccolo schermo ha avuto il proprio beniamino volante: Airwolf, andato in onda nella seconda metà degli anni ’80 e diventato per gli appassionati un piccolo cult.

Insomma, che si tratti di supereroe o di supervillain, tanti personaggi hanno come segno particolare la carrozzeria di cui si servono. Forse, se Tex fosse stato un gringo metropolitano, avrebbe guidato una Mustang.

Giannantonio Nero

Everybody wants Twinkies – ZOMBIELAND

29 Feb

Zombieland, 2009.

E se il morbo della mucca pazza rendesse zombie chi se ne nutre? Accadrebbe ciò che accade nel film Zombieland: la pandemia colpisce gli Stati Uniti, rendendone gli abitanti dei velocissimi ed atletici non-morti (al contrario dei protagonisti dei primi film di Romero, questi saltano, corrono, insomma, si danno un gran da fare).

Columbus (un giovane Jesse Eisemberg, pre – The Social Network) decide di tornare a Columbus -ohibò- Ohio, sperando di trovare ancora in vita i suoi genitori, incontrando, in compenso, Tallahassee, un nerboruto e tutto pitonato Woody Harrelson, un sopravvissuto in viaggio con lo scopo di trovare una fabbrica di Twinkies. E’ proprio questa smodata ricerca che li fa fermare ad una stazione di servizio, nella quale, dopo un massacro di routine di carne putrida, incontrano due sorelle, Wichita (Emma Stone, sempre WOW) e Little Rock (Abigail Breslin) che, senza troppi complimenti, prendono e se ne vanno con la macchina dei due, che, in compenso, trovano un Hummer pieno zeppo di armi, neanche fosse Natale. Raggiunte le ragazze, decidono di intraprendere il viaggio tutti insieme alla volta di un luna park che, a quanto pare, è un isola felice in mezzo all’apocalisse. Durante un gustosissimo excurcus in casa di Bill Murray che interpreta se stesso (travestito da zombie per camuffarsi e poter giocare in pace a golf, trucco che suo malgrado gli costerà la vita), Columbus e Wichita si avvicinano, cosa che turba la ragazza e che fa sì che riparta con la sorella alla volta del Pacific Playland senza avvertire nessuno (ovviamente, brava furba). Come potrete immaginare, il parco si rivela tutt’altro che Pacific, e le due si trovano a fronteggiare orde di zombies, decidendo di affrontarli dall’alto di uno space vertigo. Il film si chiude con Columbus e Tallahassee che arrivano in tempo per salvare le ragazze dall’inevitabile, Little Rock che dà a Tallahassee il tanto agognato Twinkie e Columbus che capisce, finalmente, di aver trovato quello per il quale era partito: una famiglia. Zombieland è una pellicola veloce, divertente, a tratti con lampi di genio (come la lista di regole da seguire per sopravvivere agli attacchi, o la comparsa di Murray ad un certo punto del film), con un cast ben amalgamato e soprattutto, credibile (perfetto Harrelson e ottima la scelta della Stone, bellaeintelligente sempre). Paragonato ad un suo “simile” qual è Shaun of the Dead, risulta forse meno divertente, ma si fa comunque valere per il suo essere ben girato e molto curato da ogni punto di vista. E’ senz’altro un film da vedere, già solo i titoli di apertura valgono l’acquisto del dvd.

Curiosità: Tallahassee non è l’unico che parte alla ricerca della fabbrica delle merendine Twinkies. Succede anche nell’episodio “Da boom” in Family Guy (i nostri Griffin), durante il quale, dopo un olocausto nucleare allo scoccare dell’anno 2000, i Griffin partono alla ricerca dello stabilimento e, trovatolo pieno di rifornimenti ed in ottime condizioni, vi fondano la Nuova Quahog, con Peter come sindaco. Redie Braun

Seconda Puntata: Blob – fluido mortale

12 Feb

Beware of the blob! Questa volta Betty presenta “Blob fluido mortale” di Irvin Yeaworth. Un film passato alla storia per i suoi ridicoli effetti speciali in una puntata che è già leggenda per il trucco-e-parrucco peggiore ever.

From an opening between our legs-Il ciclo mestruale in alcuni curiosi filmati educativi

24 Gen

Soft Revolution è una “webzine per ragazze che dovrebbero darsi una calmata”. In quanto manichino che dovrebbe decisamente calmarsi, Betty ha deciso di dire la sua sul tema del mese, che questa volta era “Cicli”. E indovinate di cosa ha voluto parlare? No, non di biciclette. http://www.softrevolutionzine.org/2012/from-an-opening-between-our-legs-il-ciclo-mestruale-in-alcuni-curiosi-filmati-educativi/

Bad Taste: il cattivo gusto è servito

9 Gen

Peter Jackson, 1987.

Non aspetterò la fine della recensione(l’equivalente del terzo appuntamento per i critici per bene)per affermarlo: non si può non amare Bad Taste. E non perché sia un gustoso reperto di archeologia cinematografica, di quelli che mandano in solluchero i feticisti del “lo sapevi che …”, o perché sia una vera chicca per gli amanti del trash d’autore. E ad essere sinceri, non è nemmeno particolarmente intrigante o avvincente. Ma non si può non pensarci con infinito affetto cinefilo perché è un concentrato, un paradigma, un emblema che parla a tutti noi amanti di cinema, di splatter e dell’imprescindibile aspetto ludico di quest’arte.

Punto primo: insensatamente splatter. La storia verte attorno a una task force speciale incaricata di sgominare una banda di alieni infiltrati nella cittadina di Kaihoro (luogo inventato il cui nome in maori può significare sia fast food che “città-cibo”) per rapire esseri umani e trasformarli in esotiche pietanze da servire in un fast food intergalattico. Ed è qui che il cattivo gusto alimentare incontra quello cinematografico. La trama, sì disgustosa ma non particolarmente ingegnosa,non è altro che un pretesto per mettere in scena una sequenza splatter dietro l’altra. Quale può essere il cibo più prelibato per gli alieni se non il vomito di umano? Che tra l’altro uno dei “boys”, gli agenti speciali in missione, è obbligato ad assaggiare in una memorabile scena in cui affonda il viso in un ciotolone pieno di liquame verde fosforescente. Anche le diverse scene, che inframmezzano tutto il film, di Peter Jackson con il cranio aperto in due che si riappiccica pezzi di cervello che gli sono schizzati via e si tiene insieme il tutto con una cintura, è totalmente gratuita, eppure noi tutti gliene saremo sempre infinitamente grati. Per non parlare poi della finale e insensata violenza contro una pecora, colpita in pieno da un razzo vagante( sì, animalisti, avete di che protestare). Insomma il titolo è una chiara dichiarazione di intenti, una promessa che, fidatevi, non verrà disattesa. Corpi verranno infatti segati e sviscerati, fatti a pezzi e ricomposti con bella mostra di sangue finto (e, per carità, non ci proviamo nemmeno a farlo sembrare vero)e organi interni, in un potpourri di effetti speciali casalinghi ma geniali. Ed era necessario? Assolutamente no.

Punto secondo: amorevolmente homemade. E’ il 1987 e un giovanissimo (e magrissimo) Peter Jackson,siamo prima di “Amabili Resti”, prima di “King Kong” e prima ancora (ebbene sì, c’è un prima) della saga del Signore degli Anelli che lo renderà famoso in tutto il mondo, se ne va in giro per le campagne neo-zelandesi con una telecamera 16 mm a inscenare assieme a un affiatato gruppo di amici un’invasione aliena. Per la realizzazione vengono spesi circa 25.000 dollari, una cifra irrisoria se si pensa che il film avrà una distribuzione internazionale e approderà addirittura al Festival di Cannes. E’ vero, praticamente a riprese terminate la New Zeland Film Commission investì circa 200.000 dollari nel progetto, ma questa è la parte della storia che ci piace tralasciare. Insomma, quando noi amanti del cinema di serie b parliamo di “low budget” ed “exploitation” è proprio a questo che ci riferiamo. Partendo dal fatto che quasi tutti gli attori, una quindicina in tutto, interpretano più ruoli. Lo stesso regista è sia un membro della task force che un alieno, e in una scena memorabile riesce a lottare anche contro se stesso. Oltre a ricoprire un’altra infinità di ruoli all’interno della produzione. Ad esempio, confezionò le maschere degli alieni nella propria cucina e la loro forma particolare deriva proprio dall’esigenza di farle entrare nel forno della madre (se vi immaginate la signora Jackson che va per infornare le salsicce e trova una testa d’alieno nel forno fate bene, perché è successo davvero). Comunque le ristrettezze economiche non tolsero spazio alle scelte stilistiche d’autore. Il dolly e la gru per le riprese più audaci furono costruite interamente in casa, oltre a una steady-cam realizzata con materiali di recupero per soli 20 dollari. Insomma, qui c’è del genio.

Punto terzo: let’s do it. Bad Taste è emblematico di un genere di cinefilia lontana dallesale di cinema d’essai e dall’ideologia del dibattito intellettuale. Un mondo in cui si ama il cinema di un amore viscerale e adolescenziale, in cui guardare film non può essere separato dalla dimensione creativa in senso stretto. Si trascende dunque la dimensione passivo-teoretica dello spettatore verso una in cui il cinema è anche e sempre una risposta a esigenze narrative che si devono piegare a continue esigenze pratiche e materiali. Per intenderci ci riferiamo a quei film impressi indelebilmente nei nostri cuori che recitiamo a memoria con gli amici e che sogniamo di ricreare un giorno. Perché in fondo lo sappiamo, il bambino che c’è in noi farebbe film in cui esplodono teste e in cui in ogni scena c’è una motosega e se ne infischierebbe di una bambina francese che racconta il sottile piacere di infilare le dita in un sacco di lenticchie. Jackson e i suoi amici girarono il film interamente di domenica, perché durante la settimana lavoravano e il sabato era già il giorno del calcetto (o almeno così vuole il mito). A questo ritmo ci vollero quattro anni per terminare il lavoro. Il che ha creato non pochi problemi di coerenza, fornendo materiale in abbondanza ai maniaci dei goofs. Bisogna tenere conto che il film inizialmente doveva essere un corto di 10 minuti, poi però, rendendosi conto che c’erano ancora molte cose da fare esplodere e da fare a pezzi, si decise di allungarlo in corso d’opera fino ad arrivare ai 90 minuti di lunghezza senza mai stendere una sceneggiatura definitiva. Come racconta nel documentario sul film “Good Taste made Bad Taste” (assolutamente consigliato) Peter Jackson fu da sempre affascinato dalla macchina da presa, e quando, ancora bambino, ricevette la sua prima 8 mm in regalo scavò una buca in giardino, improvvisò delle uniformi militari e imbastì un mini-film di guerra insieme ai suoi amici di scuola. Era il 1973 e Peter realizzò i suoi primi effetti speciali simulando gli spari del fucile attraverso dei buchi nella pellicola. A questo seguirono nel corso degli anni altri film, nessuno mai portato a termine, ma tutti a modo loro arguti e visionari.

Punto quarto: pochi soldi e grandi sogni. Quello che amiamo di questo film, e molto spesso dei b-movies in generale, è che la mancanza di soldi e mezzi non ridimensiona affatto le idee insensatamente megalomani. Ed è proprio in questo scarto, spesso enorme, tra budget a disposizione e progetti che non hanno nulla da invidiare ai grandi kolossal (e qui parliamo di uno che i kolossal li farà davvero), che nascono le perle di questo genere. In fondo quello che Hollywood ci ha veramente insegnato ad amare non è proprio la grandiosità? Per questo Jackson non rinuncia in un film casalingo a colossali effetti speciali, che includono razzi, mega-esplosioni, sangue che schizza come geyser, case volanti e alieni. E prima di scivolare penosamente nella retorica del film da back yard, ci limiteremo a ricordare che le armi da fuoco furono interamente costruite in fimo,legno e cartone e che l’audio fu aggiunto in post produzione perché la sua Bolex non registrava il suono (oltre a poter registrare solo 30 secondi alla volta). Anche in tutti i film incompiuti precedenti a Bad Taste non mancano effetti speciali e personaggi fantastici realizzati interamente da Jackson. Tutti però furono abbandonati perché, per ammissione dello stesso regista,le sue idee superavano di gran lunga le sue capacità e lui non era uno disposto a venire a patti con la dura realtà.

In fin dei conti, Bad Taste non è un film che vi terrà incollati allo schermo per tutti e 90 i minuti e, a dirla tutta, gli ultimi dieci minuti risultano anche un po’ stagnanti perché i protagonisti sembrano più presi dal divertirsi con i combattimenti che dal portare avanti il film. Ma nonostante questo colpisce per i suoi effetti speciali cheap ma geniali, la sua originalità e il proliferare di citazioni e strizzate d’occhio (ad esempio alla “Casa”, “Zombi”, “Non aprite quella Porta” e alla fantascienza anni ’50). Un portentoso mix di splatter, gore, sci-fi e horror, reso unico dall’irriducibile humor che pervade tutto il film. Diventando un cult e entrando nella leggenda. Come succede in questo genere ciò che sul film si è detto, ciò che ha ispirato e suscitato ha poi superato il film stesso diventando un mito di venerazione pop. A questo si deve aggiungere il culto della personalità di Jackson, un maniaco-ossessivo, perfezionista patologico che non lascia nulla al caso (si noti che per far esplodere la casa e farla volare, sì volare, furono costruiti un modello di 5 metri e uno in scala), le cui trovate assolutamente geniali, i feticismi e l’entusiasmo incontenibile non possono che conquistarci. E nel frattempo noi fan di tutto il mondo rimaniamo col fiato sospeso in attesa del sequel (così snobbati dal pubblico main stream, ma tratto distintivo dei b-movies) del quale si vocifera da anni ma che non è ancora stato realizzato.

Arianna Verdecchia

Apre il Betty’s bar

5 Gen

Se fossimo negli anni ’80 e Internet fosse Milano, da oggi l’aperitivo lo prendereste di sicuro al Betty’s Bar, il nuovo contenitore curato dalla rampantissima redazione del Cinema di B-etty sulla piattaforma di Videocircuito. Ogni settimana consigli, trailer, scene cult, suggestioni varie e ultime notizie pensate dagli amanti dei b-movies per gli amanti dei b-movies (variazione sul tema di “Lines seta ultra pensato dalle donne per le donne”).

Il Betty’s bar lo trovate qui

E  siccome questo non è un Cinema ma un Bar, vi chiediamo di chiacchierare ad alta voce e di essere partecipativi almeno quanto gli avventori del mitico Jolly Blu. Insomma, commentate, condividete e postate senza chiedere scusi e per favore, manco foste Tomas Milian.

Note a Margine: Poliziesco vs Poliziottesco

31 Dic

Sappiamo tutti che tra i vostri buoni propositi per il 2012 c’è quello di saperne di più sul cinema di genere.

Con questo video inauguriamo quindi una serie che potremmo chiamare  “Cinema di serie B for dummies”: brevi video che vi introdurranno alle cose che dovete sapere.

Regalatevi tre minuti con Betty per fare un figurone sfoggiando la vostra cultura al veglione di stasera.